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OFENTSE PITSE

  • Data di nascita
    1 luglio 1992
  • Paese di origine
    Sudafrica
  • Professione
    Direttrice d'orchestra
  • Ofentse Pitse abbatte le barriere nella musica come primo direttore d'orchestra donna di colore in Sudafrica.

  • Intervistatore: Siamo tutti molto curiosi di sapere cosa ti ha spinto a diventare Direttrice d'orchestra.

     

    Ofentse

     

    È stato il mio primo incontro con la musica a 12 anni a farmi avvicinare alla direzione d'orchestra, durante la mia infanzia nell'Esercito della Salvezza. Scelsi di suonare la tromba: dopo aver visto dei ragazzi suonarla in chiesa, volevo essere come loro.

     

    Mamma mi accompagnava in chiesa ogni sabato e così imparai a suonare la scala in chiave di do. Iniziò a piacermi subito la musica classica, una passione poi diventata amore per l'orchestra e per il coro. Il mio desiderio di diventare Direttrice d’orchestra è nato così. In maniera spontanea.

     

    Intervistatore: Un ottimo inizio direi. Ho guardato un'intervista online in cui hai detto di aver studiato architettura.

     

    Ofentse

     

    Sì, diciamo che sono un architetto. Ok, ufficialmente sono un architetto.

     

    Intervistatore: E cosa ti ha convinto a passare alla musica? Ti piace ancora l'architettura? La trovi una fonte d'ispirazione?

     

    Ofentse

    Senza ombra di dubbio. L'architettura non è lontana dalla musica. Ci sono concetti come tecnica, equilibrio, struttura che puoi trovare anche nella musica classica. La transizione è quindi stata graduale, perché ho imparato le stesse cose sia all'università che studiando musica.

     

    Incluso il mio approccio agli spartiti: studio bene gli spazi in cui devo entrare e uscire. Valuto lo spazio più adatto a ospitare la musica, da dove provengono l'illuminazione, l'aria, la ventilazione. Studio lo spartito come farei con la planimetria di un edificio. Ed è proprio questo che mi entusiasma a reinterpretarlo, in modo quieto e classico.

     

    È un approccio prettamente artistico e architetturale, ma in fin dei conti è così che creo la musica: la immagino come una struttura.

     

    Intervistatore: Una risposta molto esaustiva e spontanea. Ora dimmi, cosa si prova a dirigere un'orchestra sui palchi più importanti del Sudafrica?

     

    Ofentse

     

    È una domanda interessante perché sono un po' ribelle nel mio approccio alla musica, quindi non volevo essere come i Direttori tradizionali. Volevo un po' rompere gli schemi e le barriere. È per questo che in tante delle mie opere potete trovare musica per orchestra, ma con la partecipazione di artisti popolari. Al mio primo spettacolo ha partecipato Judith Sephuma, un'artista afro-jazz, ma la musica che volevo orchestrare era di Tchaikovsky. Come potevo renderla jazz? Perché si trattava di uno spettacolo di musica prettamente jazz. Una sfida davvero interessante, no? Da lì la situazione si è evoluta ed è nata la voglia di un'altra grande sfida. Per questo di solito non mi vedete in teatro; è più facile trovarmi con il pubblico, alla ricerca di un modo per combinare la musica hip hop, come Beyoncé, con quella per orchestra. O un modo per combinare jazz e orchestra, oppure dei brand e orchestra…  Trovo interessante accostare il mondo classico o musicale e quello dell'arte. È entusiasmante; come avere dei mattoncini Lego disparati e metterli insieme.

     

    Intervistatore: Perché hai scelto Sibelius per oggi?

     

    Ofentse

     

    Ho scelto Sibelius innanzitutto per via dell'inno "Be still, my soul, the Lord is on thy side", lo cantavano sempre nella chiesta in cui andavo da piccola. Quando ho ascoltato Sibelius per la prima volta, mi sono chiesta chi fosse l'arrangiatore e quale fosse l’orchestra, solo per scoprire che si trattava di un inno di cui i finlandesi vanno molto orgogliosi. È la canzone che suonano o ascoltano ogni anno prima della notte di San Silvestro, quindi si tratta di una composizione patriottica. Considerate le riprese che faremo oggi, volevo qualcosa che mi aiutasse a metterci tutto il cuore, a dare enfasi ai movimenti delle mani, ad attribuire ai diversi temi e movimenti del componimento i giusti sentimenti e significati. È per la natura di questo inno che amo così tanto Sibelius.

     

    Intervistatore: Qual è la tua routine quotidiana da Direttrice d'orchestra?

     

    Ofentse

     

    La mia routine quotidiana? Mi sveglio alle cinque, faccio una corsetta, torno a casa e ascolto musica su Spotify. Non proprio una routine da musicista classica, vero? Poi procedo con la giornata per gradi. Dedico la maggior parte del tempo all'architettura, ma di recente mi occupo anche di progetti musicali. Ho iniziato ad appassionarmi ad arrangiamenti e orchestrazioni, perciò sono sempre in cerca di idee nuove, nuove combinazioni di parole, ma in termini orchestrali. A un certo punto della giornata schiaccio anche un pisolino, poi mi sveglio e riprendo da dove avevo lasciato. Metto molta concentrazione nel lavoro, soprattutto quando si tratta di musica; mi isolo fino a lavoro completato. Una Direttrice un po' asociale, non trovate? Non riesco a spegnere il cervello, penso sempre alla prossima grande idea che vorrei realizzare. A volte devo costringermi a dormire perché non ho proprio voglia di smettere di pensare.

     

    Intervistatore: Molto interessante. Noto molti parallelismi con la mia professione e la creatività che richiede. È come creare un mondo tutto tuo.

     

    Ofentse

     

    Esatto, un mondo in cui vivi e in cui vuoi vivere.

     

    Intervistatore: Quali ritieni siano stati i punti più alti della tua carriera finora?

     

    Ofentse

     

    Sono tutti i momenti in cui mi sono addentrata in territori inesplorati. Come dicevo, al mio primo concerto ho collaborato con un'artista afro jazz, che in Sudafrica è considerata la regina del suo genere. Era il mio primo spettacolo in assoluto. Poi ho partecipato a un evento con Veuve Clicquot, un marchio di champagne. L'anno scorso mi hanno chiesto di fare un discorso seguito da un'esibizione a sorpresa con un'orchestra. Una sorta di flash mob. Il pubblico non aveva la minima idea che ci sarebbe stata un'orchestra. I musicisti sono comparsi da diversi angoli e abbiamo suonato insieme il tema musicale di Veuve Clicquot. Ho anche condotto con un musicista di afro tech-house: indossavo questo outfit in stile gotico, ballavo a ritmo di musica. Ero in piena sintonia con l'atmosfera.

     

    I momenti importanti sono stati tanti soprattutto nell'ultimo anno. Di recente ho lavorato a un evento con Bidvest, un marchio di servizi per aziende. Abbiamo messo insieme una sorta di orchestra africana e volevano che organizzassi uno spettacolo in stile Coachella, combinando la musica di Beyoncé e la sua esibizione al festival con un tocco africano. Avevamo coro, tamburi dundun, tamburi swati: un ensemble di percussioni prettamente africano.

     

    È stato davvero entusiasmante, perché i musicisti suonavano così, improvvisando, senza neanche guardare gli spartiti. È stato impegnativo, ma interessante. Un punto importante della mia carriera.

  • Intervistatore: Davvero emozionante. Mentre parliamo stai creando musica per Toyota, vero?

     

    Ofentse

     

    Sono entusiasta! Mi piacerebbe tantissimo. Ritmo sostenuto, velocità elevata, proprio come una corsa, soprattutto se penso all'auto protagonista dello shooting di questa settimana. Me la sarei portata a casa. Sarebbe incredibile creare la sua colonna sonora.

     

    Intervistatore: Assolutamente. Ottimo. Ci sono stati dei momenti difficili nella tua carriera e, se sì, ti va di parlarne?

     

    Ofentse

     

    Certo. Innanzitutto, nel mio mestiere è difficile trovare qualcuno col mio stesso aspetto. Sono giovane, donna e nera, giusto? Quando all'inizio presi contatti con diversi Direttori d'orchestra in Sudafrica, per ricevere i loro consigli o la loro guida, la maggior parte mi chiuse la porta in faccia. Questa cosa mi abbatté molto finché non conobbi Corbin Goodson, che mi prese sotto la sua ala e mi insegnò tutto ciò che sapeva. Ma ci sono stati anche dei cambiamenti in termini di accesso: è difficile entrare in questo mondo ancora dominato da una forte presenza maschile, quindi per me non è stato semplice organizzare grandi spettacoli con un'intera orchestra e un coro al completo. E a volte ci si mettono anche i marchi che fanno tante promesse, ma poi non le mantengono.

     

    Quindi sì, ho avuto delle esperienze non del tutto positive, ma per la maggior parte si tratta di un problema di accesso. Ripeto, non si vedono Direttori come me tutti i giorni e allora la gente si chiede: "Sarà abbastanza brava?". Si tratta di un problema davvero enorme nella mia carriera.

     

    Sono una giovane donna nera che vive in Sudafrica e lavora in un settore dominato dagli uomini. Volevo andare oltre gli standard, lo status quo, le aspettative della gente,e allora ho creato un mondo tutto mio. Ho curato delle esperienze cui altri giovani possono partecipare e contribuire, e spesso sono le persone che entrano nella mia orchestra. In questo senso andiamo sempre oltre ciò di cui facciamo parte, oltre ciò che siamo.

     

    Intervistatore: Bene, hai già risposto alla prossima domanda. Ti avrei chiesto come hai superato questi ostacoli. Ma forse c'è un'altra domanda con cui puoi ampliare questo discorso: nel corso della tua carriera, qual è la lezione più importante che hai imparato finora? Ce n'è una in particolare?

     

    Ofentse

     

    Sì, c'è: nella mia carriera, specialmente quella di Direttrice d'orchestra, ho imparato che non conta quante persone mettono mi piace ai tuoi post. Quello che importa è esercitarsi e far bene il proprio lavoro. Non conta il numero di follower, conta ciò che fai. Ho imparato questo. E così posso guardarmi sotto una luce diversa, non solo come donna. Voglio essere tra i migliori al mondo a dirigere un’orchestra, uomini o donne che siano.

     

    Intervistatore: Personalmente, ti ritengo una pioniera. Ogni anno vai oltre, senza dubbio, perché per arrivare dove sei bisogna superarsi.

     

    Ofentse

     

    Grazie mille.

     

    Intervistatore: E adesso cosa ti aspetta? Come immagini il successo futuro, ora che sei arrivata così lontano?

     

    Ofentse

     

    Per me il successo sta nella collaborazione. Amo lavorare con persone che di solito non si vedono all'interno di un'orchestra. Per questo non ho esitato a partecipare a questa campagna, fa davvero per me. È fuori dalla norma vestirsi in smoking, con pantaloni all'italiana senza pince e, nel frattempo, dirigere un'intera ouverture. Il punto è parlare dritti al pubblico con la musica d'orchestra, una cosa che tocca sempre il cuore, va oltre ogni cosa e mi motiva. È qui che voglio arrivare: a collaborare con chi la pensa come me, chi vuole abbattere le barriere e superare ogni aspettativa. Oh, e anche alla Sydney Opera House.

     

    Intervistatore: È ufficiale?

     

    Ofentse

     

    No, ma voglio riuscirci. Riusciamoci insieme.

     

    Intervistatore: Beh, sembra un'ottima idea.

     

    Ofentse

     

    Voi potreste occuparvi del backstage e dell'organizzazione complessiva. Immagina la vista sulla spiaggia, l'architettura della città e l'acustica del teatro. Per me sarebbe magico. Potrei indossare dell'abbigliamento africano, delle vesti tradizionali, e magari dirigere opere africane. La Sydney Opera House deve essere il picco della mia carriera.

     

    Intervistatore: È il punto d'incontro tra i tuoi sogni di architetto e quelli di Direttrice d'orchestra?

     

    Ofentse

     

    Esatto. Vedi come si ricollegano? Non è niente di inverosimile.

     

    Intervistatore: Hai dei consigli per chi legge questa intervista su come dare il meglio di sé? Cosa significa per te "andare oltre"?

     

    Ofentse

     

    È una domanda impegnativa. Direi che per arrivare al giusto livello la preparazione è fondamentale. Mi preparo alla follia, anche per il pezzo di oggi. Mi assicuro sempre di essere preparata. Di solito, un Direttore d'orchestra dirige guardando lo spartito e girando le pagine; ma se sei in piena sintonia con l’anima della musica, lo spartito non serve più, no?

    In alcuni punti non sapevo neanche dove fossi, ma riuscivo a sentire l'energia dell'orchestra e del pubblico, anche dandogli le spalle; sentivo tanto entusiasmo ed energia, sia da chi era dietro di me che da chi era davanti a me. Se ti prepari a dovere, arrivi sempre dove vuoi.

     

    Intervistatore: Molto interessante. Immagino che essere ben preparati porti a uno stato di immersione totale in cui si notano molte più cose. Hai un motto cui ti ispiri o che ti motiva?

     

    Ofentse

     

    Il mio motto è una combinazione di tre parole: visione, obiettivo e retaggio culturale.

     

    Intervistatore: Perfetto, ottimo. Qual è la prossima grande novità che ti aspetta?

     

    Ofentse

     

    Sydney Opera House. Carnegie Hall. Oppure dirigere per uno spettacolo di danza classica o per Beyoncé. Chi lo sa?! Sono davvero entusiasta delle possibilità che mi aspettano perché, come ho detto prima, faccio in modo di farmi trovare preparata. Sono consapevole di essere a un buon livello, più che buono anzi, per aggiudicarmi tutte queste opportunità.

    Sono sempre preparata per la prossima sfida. Però sto anche cercando di presentare delle opere tutte mie e organizzare degli spettacoli, sia in teatri che in luoghi diversi. Senza dimenticare le collaborazioni con gli artisti. Direi che il futuro ha in serbo questo per me.

     

    Intervistatore: Fantastico. Dato che questa campagna dice che ogni passo conta, cosa conta per te?

     

    Ofentse

     

    Ok, allora: ogni visione conta, ogni prova conta, ogni applauso conta, ogni intenzione conta, ogni membro dell'orchestra conta, ogni spartito conta.

SAMIR AIT SAID

  • Data di nascita
    1 novembre 1989
  • Paese di origine
    Francia
  • Professione
    Ginnasta olimpico
  • Samir Aït Saïd va oltre ogni aspettativa per diventare campione europeo in seguito al suo infortunio.

  • Intervistatore: Cosa ti ha spinto a diventare un atleta?

     

    Samir

     

    Da piccolo ero un bambino pieno di energie. Correvo e saltavo ovunque e a scuola ero un vero incubo. Perciò mio papà pensò: "Questo ragazzo deve assolutamente iniziare a fare sport".

     

    Voleva che facessi judo. Però a scuola facevo già ginnastica, il trampolino elastico nello specifico. Per me fare ginnastica equivaleva a stare sul trampolino.

     

    Quindi gli dissi: "No, papà, non è questo che voglio fare. Voglio fare trampolino". Facevo già abbastanza risse a scuola, e non era un granché.

     

    Per me la ginnastica non era altro che fare trampolino. È così che ho iniziato a fare sport.

     

    Intervistatore: Cosa si prova a eseguire una routine di esercizi alle Olimpiadi?

     

    Samir

     

    È un momento di grande orgoglio. Si lavora così tanto per arrivare alle Olimpiadi e poter dire di rappresentare il proprio Paese ai Giochi… è fantastico. Incredibile. Un traguardo enorme.

     

    E poi sono molto patriottico, sono orgoglioso di rappresentare il mio Paese. Riuscire a distinguersi in una gara come le Olimpiadi è semplicemente un onore. Ti concentri sulla routine, sul non farti distrarre per eseguirla nel modo migliore possibile.

     

    E quando finisci, non provi altro che pura gioia. Evitare di stressarmi, trasformare l'adrenalina in stress positivo: è a questo che punto.

     

    Intervistatore: Qual è la tua routine quotidiana?

     

    Samir

     

    La mia routine quotidiana? Stranamente, spesso non ho molta scelta su quando alzarmi: decide mia figlia. Magari alla fine di una giornata di allenamento molto dura mi riprometto di dormire un po' di più per recuperare in vista dell’allenamento successivo. Ma la signorina la pensa diversamente!

     

    Se decide di svegliarsi alle sei invece che alle otto, è lei il capo. Poi di solito la porto all'asilo, dopodiché faccio esercizio con il mio allenatore per il resto della mattinata.

     

    Torno a casa, pranzo, se posso schiaccio un pisolino per ricaricarmi e poi torno ad allenarmi, stavolta curando più l'aspetto tecnico che l’esercizio, quindi con gli attrezzi, soprattutto gli anelli.

     

    Appena finito vado a prendere il mostriciattolo all'asilo e torniamo a casa. Se ho avuto qualche piccolo infortunio, ci infilo anche una sessione di fisioterapia. Ecco, questa è la mia giornata tipo, di solito.

     

    Intervistatore: Quali ritieni siano i punti più alti della tua carriera?

     

    Samir

     

    Iniziamo dal primo, nel 2012, senza contare i titoli juniores ed europei che ho vinto nei tornei giovanili - limitiamoci ai traguardi da professionista.

     

    Una cosa che mi ha segnato nel profondo è stato rompermi il ginocchio - e quindi dovermi operare - poco prima di partire per le Olimpiadi di Londra. Chiunque avesse visto il mio infortunio diceva che sarebbe stato molto difficile potermi riprendere.

     

    Subito dopo i Giochi dovevo qualificarmi per gli Europei, quindi ovviamente niente Olimpiadi per me. Volevo davvero riprendermi e tornare forte come prima.

     

    Ad aprile c'erano gli Europei a Mosca e tutti: "Ehi Samir, non sarai pronto, è troppo presto, è impossibile". Ma io rispondevo che ce l'avrei fatta.

     

    In gara diedi il tutto per il tutto, mi qualificai e poi a Mosca vinsi, diventando Campione Europeo. È stata una vittoria personale incredibile.

     

    Il secondo momento saliente risale a poco tempo fa.

     

    Purtroppo, la mia squadra non si è qualificata alle Olimpiadi. Eravamo ai Mondiali 2019 di Stoccarda, evento di qualificazione per le Tokyo 2020.

     

    Data la mancata qualificazione, l'unico modo per staccare un biglietto per Tokyo era vincere una medaglia ai Mondiali.

     

    Vedo gli altri prima di me che eseguono delle routine pazzesche. Viene il turno del terzo atleta, prima di me: è il Campione Olimpico in carica.

     

    Esegue la sua routine alla grande e finisce terzo; quindi l'unico modo per qualificarmi è battere il Campione Olimpico uscente.

     

    L'adrenalina sale, sento la pressione, mi dico: "È il tuo momento. È tutto nelle tue mani".

     

    E ce l'ho messa tutta. Ho battuto il Campione Olimpico, mi sono aggiudicato una medaglia e sono potuto volare a Tokyo per le Olimpiadi.

     

    È stato un traguardo fenomenale per me e per la mia carriera.

     

    Nutro un forte rispetto per lui, l'atleta greco; siamo amici. Ma in fin dei conti era una sfida: o me o lui alle Olimpiadi.

     

    Si è trattato di un momento speciale e gliene sono davvero grato.

     

    Intervistatore: Qual è stato il momento più difficile e come lo hai superato?

     

    Samir

     

    Ce ne sono stati diversi e, sarò sincero, ce n'è uno che ancora non sono riuscito o che faccio fatica a superare. Ho perso mio padre dopo le Olimpiadi di Rio. È stato il momento più duro della mia vita.

     

    Non c'entra niente con lo sport ma è stata molto, molto dura. Ma alla fine, è una cosa che si riesce a superare? Non posso dire di esserci riuscito, dovrò imparare a conviverci. Vado avanti e mi batto ogni giorno anche per lui, perché gli ho fatto una promessa: quella medaglia sarà mia.

     

    È stata la prima batosta della mia vita, perlomeno da adulto. Ma sai, ho continuato a battermi e a fare del mio meglio per rendergli onore.

     

    Un altro brutto colpo, e credo che tutti lo abbiano visto, è stato alle Olimpiadi, quando ho avuto quel terribile infortunio che mi ha impedito di salire sul podio.

     

    Come si supera una cosa del genere? Credendoci, senza mai mollare. Ed è così che sono fatto.

     

    Me lo ha insegnato mio padre: non mollerò mai.

     

    Porterò a casa quella medaglia, costi quel che costi: per lui, per me, la mia famiglia e tutti quelli che credono in me. Dovrò lottare per averla, dovrò evitare che i momenti difficili mi facciano gettare la spugna.

     

    Chiaro, non è facile e a volte penso che se ci rinunciassi tutto sarebbe più facile.

     

    Ma rinunciare, perché? Sarebbe più facile, cosa? Ci starei solo male, non mi perdonerei mai. Che senso avrebbe?

     

    I miei cari che non ci sono più o le persone che credono in me ne sarebbero felici? No. So per certo che mi direbbero di lottare fino alla fine, fino all'ultimo respiro, fino all'ultimo briciolo di forza.

     

    E io continuerò a farlo, sia nella mia carriera, sia nella vita privata, con la mia famiglia. Sono fatto così. Mi batto per quello in cui credo, che amo e, soprattutto, per chi amo.

     

    Intervistatore: Nel corso della tua carriera, qual è la lezione più importante che hai imparato?

     

    Samir

     

    Questa domanda si ricollega a ciò che ho detto prima. Ho imparato che a volte non è scontato che la gente creda in te.

     

    Ma la cosa importante è che ci creda tu. Dobbiamo lottare per noi stessi e i nostri obiettivi.

     

    Come dicevo, alcuni non credevano che ce l'avrei fatta.

    Se non hai fiducia in te stesso, rischi di credere a quello che ti dicono gli altri. "Non ce la farai. Hanno detto che non ce la farò, forse hanno ragione. Ed è tutto così difficile, meglio mollare".

     

    Non se ne parla. Per me, tutto sta nel continuare a crederci e lottare. Se tu non credi in te stesso, chi lo farà?

     

    Intervistatore: Qual è la tua idea di successo?

     

    Samir

     

    Il successo? Innanzitutto, è gratitudine.

    È fare bene in gara, vincere una medaglia e poi saper lasciare quel momento alle spalle, dopo averlo vissuto per quello che è.

     

    La medaglia l'hai vinta, ottimo, ora rilassati fino al prossimo obiettivo. 

    In fin dei conti, è solo sport. Quindi sì, credo sia importante godersi il momento.

     

    Viverlo a fondo, di questo abbiamo bisogno.

     

    Personalmente, mi piace festeggiare i traguardi con le persone che amo e che vivono con me la quotidianità, con chi crede in me: allenatori, preparatori atletici, compagni.

     

    Tutti questi fattori combinati mi hanno aiutato a diventare più forte e ad avvicinarmi al successo.

     

    È un lavoro di squadra.

     

    Intervistatore: Hai dei consigli su come dare il meglio di sé per chi vedrà quest’intervista?

     

    Samir

     

    Sì. Sarò un po' ripetitivo ma dirò la stessa cosa: bisogna credere in sé stessi. Credi in te, lotta, dai il massimo.

     

    Dopo tutto, raggiungere o meno un obiettivo non dipende da quanto è ambizioso. Se non ci riesci la prima volta, non significa che alla fine non riuscirai.

     

    C'è un detto che cita un leone. La maggior parte delle volte il leone fallisce, non ricordo quanto, diciamo l'80%: quando caccia, l'80% delle volte non catture la sua preda.

     

    E quindi cos'è che lo rende un re? La perseveranza. È una cosa che amo.

     

    Il leone va a caccia, prova a catturare la preda e colleziona fallimenti su fallimenti. Ma non getta la spugna finché non ci riesce!

     

    E per noi, o in ogni caso per me, l'obiettivo è la medaglia olimpica. È questo che io e il leone abbiamo in comune.

  • Intervistatore: Hai un motto nella tua vita?

     

    Samir

     

    Un motto? Quello che ho detto prima: non mollare mai.

    Anche se non ci riesci, non mollare mai.

     

    Intervistatore: Cosa significa per te "andare oltre"?

     

    Samir

     

    Per me "andare oltre" significa lavorare sodo, puntare all'obiettivo senza timore. Certo, è naturale essere intimoriti, e allora come reagisci? Vai avanti o molli per la paura?

     

    Andare oltre vuol dire questo.

     

    Voglio ricollegare questo concetto al mio infortunio. Durante un volteggio mi si è spezzata la gamba in due.

     

    Ovviamente il pensiero della gamba rotta, di dovermi ritirare o di tutto il dolore mi ha spaventato. E ora che faccio? Mi fermo? No.

     

    Ecco cosa significa andare oltre. Avere paura, ma continuare lo stesso. Affrontando dubbi e timori, cercando sempre di superarmi. O almeno, io la vedo così.

     

    Intervistatore: Quali sono tre fattori importanti che ti aiutano ad "andare oltre"?

     

    Samir

     

    Il primo è la mia famiglia.

    Ogni momento trascorso in famiglia è importantissimo.

    Mia figlia mi dà così tanta forza, ogni volta che non sono con lei, la sto chiamando o sto guardando le sue foto.

    Significa tantissimo per me.

    Ogni secondo in cui mi sto allenando è importante, perché in quel preciso momento sto andando avanti, sto diventando più forte e sto acquisendo più esperienza.

    E credo anche che ogni fallimento mi aiuti a migliorare. Ogni sconfitta e ogni caduta mi fortificano, con la volontà di non mollare mai.

    Per ricapitolare: famiglia, allenamento e fallimenti.

    Ogni momento con la mia famiglia conta. Ogni secondo dell'allenamento conta. Ogni sconfitta, ogni fallimento, ogni caduta: tutto questo conta.

     

    Intervistatore: Qual è il tuo prossimo obiettivo?

     

    Samir

     

    Il prossimo grande traguardo (ed è davvero ambizioso) sono i Mondiali, che contano come evento di qualificazione per le Olimpiadi di Parigi.

    Si svolgeranno a ottobre in Belgio e sarà il momento decisivo per qualificarmi. È una gara in cui gli errori non saranno ammessi.

     

    Intervistatore: In vista di un evento importante, quali sono le piccole cose che ti fanno sentire pronto?

     

    Samir

     

    Secondo me, sentirsi pronti è impossibile. E quando inizi a provare questa sensazione… significa che in fondo lo sei.

    Se sai di avercela messa tutta, di esserti preparato per essere in piena forma, arrivi al giorno della gara e ti chiedi "Sono davvero pronto?", allora dentro di te sai di esserlo.

    È quando non ti senti troppo tranquillo e non ti dici: "Beh, ho fatto tutto il possibile". Sì, hai lavorato duramente, ma in fondo ti chiedi se hai dimenticato qualcosa. Sai cosa intendo?

    Credo che quando arrivi a questo punto, è lì che sei davvero pronto. Dopo tutto, è soltanto l'adrenalina che ti fa venire mille dubbi.

     

    Intervistatore: Quali sono le piccole vittorie che ti hanno aiutato a sentirti più sicuro di te?

     

    Samir

     

    Una piccola vittoria è stata tornare a camminare senza stampelle.

    Mi sono sentito come un bambino ai primi passi: ne fa due, tre, cade ed è comunque felicissimo! Mi è successo lo stesso.

    Ero così contento di potermi sbarazzare delle stampelle, è stata una sensazione incredibile. Mi sono sentito grande, come un adulto.

    Quasi me ne vantavo con tutti: "Guardate, cammino senza stampelle!". È stata questa la mia piccola vittoria. Me ne ricordo ancora dopo qualche anno, quindi deve avermi segnato.

     

    Intervistatore: Quali sono i dettagli che hanno fatto o possono fare la differenza durante una gara?

     

    Samir

     

    Fammi pensare… anche qui devo nominare mia figlia. Quando la vedo, sento che mi dà quel tocco in più di energia, di forza.

    Arrivo alla gara carico di adrenalina, stressato o pieno di dubbi: chi dice di non averne, mente.

    Mi è successo parecchie volte. Mi chiedo se ce la farò, se andrà tutto per il meglio.

    Quando ho questi dubbi chiamo mia figlia su Facetime e lei mi dice: "Forza papà, vai così!". E a quel punto come posso mollare? Sono obbligato a riuscirci!

    Lo dice davvero, sai? "Vai così papà! Forza Francia!".

    Le piace lo sport, tifa per me e mi ricarica di energia.

    Quando la porto con me e vede un mio poster dice: "Guarda, è papà! È papà!". È la sensazione più bella in assoluto.

    E quando dice: "Forza papà! Che vuol dire che sei stanco?!".

    Il giorno della gara ti lamenti della stanchezza?! No, no e no. Tua figlia è lì che ti sostiene, conta su di te e fa il tifo per te. In tutta onestà, darei il massimo anche se fosse questione di vita o di morte. Non c'è assolutamente altra scelta!

     

    Intervistatore: Come ti rilassi prima di una gara?

     

    Samir

     

    Di solito guardo un film per rilassarmi e mettermi a mio agio.

    C'è da dire che, però, non voglio presentarmi alle gare troppo rilassato: mi servono tanta adrenalina e testosterone per reggerle.

    Quindi mi rilasso qualche ora prima, ma mezz'ora o un'ora prima arriva il momento di concentrarsi davvero. 

     

    Intervistatore: Qual è il miglior consiglio che hai ricevuto?

     

    Samir

     

    Il miglior consiglio? Ne ho ricevuti tanti, ma credo che il migliore di tutti me lo abbiano dato i miei genitori: fai ciò che ami, il resto non conta.

    È il migliore perché dice tutto e niente allo stesso momento.

    Fai ciò che ami, il resto non conta, non costringerti a fare qualcosa che odi.

    Lotta e fai quello che ti piace davvero.

    Se fai qualcosa che ti piace otterrai risultati migliori. Lo sanno tutti. Dunque, sì, è un messaggio estremamente semplice, ma non potrebbe avere più senso.

    Fai ciò che ami. È questa la frase che mi viene in mente.

     

    Intervistatore: Sei superstizioso? Hai qualche portafortuna?

     

    Samir

     

    [Ride, ndr]

    No, non ho un portafortuna né superstizioni particolari.

    Però ho molta fede e credo nel destino: se qualcosa deve accadere, accadrà.

    Come dicono alcuni, la paura non ti salva dai pericoli. Ovviamente ho delle paure, come tutti, ma superstizioni tipo: "Oh no, quella porta o quella finestra non la tocco", quelle no, non sono fatto così. Agisco e poi si vedrà come andranno le cose.

     

    Intervistatore: Qual è il tuo ultimo pensiero prima di entrare in gara?

     

    Samir

     

    Il mio ultimo pensiero? È per le persone che mi sono care, quelli che mi hanno aiutato ad arrivare dove sono.

    E sono tante: famiglia, amici, allenatori, compagni: tutti loro sono stati fondamentali per arrivare a quel momento.

    Penso a loro perché vincere da soli è impossibile.

    Chiunque dica che non ha bisogno di nessuno mente: tutti abbiamo bisogno degli altri.

    Quindi, in quei momenti penso che qualsiasi vittoria sarà condivisa.

     

    Intervistatore: Ora passiamo a qualcosa di un po' più…

     

    Samir

     

    Vai, sono tutto orecchie!

     

    Intervistatore: Qual è il tuo piacere proibito?

     

    Samir

     

    Un momento, ci sono bambini in ascolto? Devo stare attento a quel che dico!

    Allora, il mio piacere proibito è sicuramente mangiare!

    Sono un buongustaio. Ok, dico la verità… sono goloso di dolci, ne vado matto.

    Il problema è che in fondo sono ancora un bambino. Un bambino avanti con l'età, in un certo senso mai cresciuto. Gioco come un bambino, mangio dolci come un bambino.

     

    Ho un aneddoto al riguardo, non so se poi lo taglierai.

    I miei vicini hanno un figlio di 11 o 12 anni. Siamo invitati a cena da loro e a tavola si fanno discorsi da adulti, io però ogni tanto sparisco all'improvviso! Dove sono? Nell'altra stanza a giocare coi piccoli.

    E il bambino una volta ha persino detto: "Samir non è un adulto, è un bambino come noi". [Ride, ndr]

    Hai capito cosa voglio dire? È il piccolo Samir che vive dentro di me. Mi sento un po' come un bambino a cui non va di crescere e diventare adulto.

    Mi piace il mio lato infantile, lo trovo un bel modo di approcciarsi alla vita. Voglio divertirmi.

    E questo si ricollega a ciò che ho detto prima: faccio ciò che dico io, ciò che amo. Proprio così.

    Chi è più maturo tra me e mia figlia? Mi sa che è lei! Mia figlia probabilmente è più matura di me, lo ammetto. E questa cosa mi piace tantissimo.

     

    Intervistatore: Ultima domanda: il tuo giorno perfetto, non contando quelli delle gare?

     

    Samir

     

    Il giorno perfetto? Stare con mia figlia, guardare un bel film, fare una passeggiata e mangiare qualcosa di buono dopo essermi allenato. Direi questo.

    La mia piccola, un bel film e del buon cibo non si battono. La mia famiglia è ciò che conta di più.

KEN BILLES

  • Data di nascita
    6 agosto 1980
  • Paese di origine
    Francia
  • Professione
    Vicecapo designer
  • Ken Billes va oltre i design tradizionali e vede le auto come vettori che ci consentono di scoprire cose nuove.

  • Intervistatore: Cosa ti ha spinto a diventare un designer di auto?

     

    Ken

     

    Bella domanda. Me lo chiedo anch'io: perché?

     

    Ricordo che da bambino mi piaceva viaggiare, ma non sono sicuro che sia stata l'unica spinta a progettare auto. Per me non è interessante il viaggio in sé, piuttosto ciò che mi lascia, le cose che si scoprono ed è questo che mi guida in tutto ciò che faccio ogni giorno: la scoperta.

     

    E mi piace anche che le auto ci servano per scoprire cose nuove, comunicare ed entrare in sintonia tra noi. A pensarci bene, forse l'auto in sé non è l'obiettivo, ma il vettore o fattore che innesca la voglia di stare insieme, comunicare e fare nuove scoperte. Credo sia questo che mi abbia spinto a diventare designer di auto.

     

    Intervistatore: Puoi dirci qualcosa che hai scoperto durante la tua carriera?

     

    Ken

     

    Non so se sia una buona risposta o meno, ma all'inizio vedevo il mondo come fisso e lineare, per poi scoprire che è fondamentalmente caotico e che tutto deve avere un obiettivo.

     

    Ti fissi dei traguardi e lo stesso fa un’azienda, poi ti ritrovi a spostare delle cose e niente è veramente stabile o perennemente in ordine. Lo trovo molto interessante, ed è anche una delle scoperte più importanti che ho fatto da quando faccio questo lavoro.

     

    Intervistatore: Wow, è davvero interessante.

    Cosa si prova a lavorare su auto guidate da milioni di persone?

     

    Ken

     

    Provoca molto stress, c’è tanta pressione. È dura non essere soddisfatto al 100% di un prodotto che crei, visto che lo vedrai praticamente ovunque.

    Poi bisogna considerare che quando i proprietari acquistano un'auto, c'è qualcosa di intrinseco che gli piace e vogliono sentire quella sensazione anche nel lungo periodo. Non si tratta di progettare solo per quel breve momento della decisione di acquisto, bisogna essere lungimiranti. E non è per niente facile. Come si realizza un prodotto che tutti accetteranno di possedere a lungo e, al contempo, rispetti l'ambiente?

     

    Quindi non si tratta di dire solo che qualcosa è noioso, bisogna avere un approccio globale. Non conta solo l'oggetto in sé, conta anche lo stile di vita. Per questo dobbiamo metterci nei panni dei clienti: capire i loro desideri o il modo in cui vivono è un aspetto molto interessante.

     

    Intervistatore: D'accordo. Hai parlato della lunga vita di un'auto, però acquistarla è una decisione emotiva. Qual è l'elemento determinante?

     

    Ken

     

    L'aspetto. E anche lo spirito o l'atmosfera che il prodotto emana.

     

    A volte guardando un oggetto si prova una sensazione particolare. E il messaggio è chiaro. Si può ricordare una conversazione sia con molto, sia con poco contesto. Un'auto invece ha meno di un minuto per lanciare un messaggio al cliente. È questo che rende il tutto interessante: c'è un messaggio evidente, e poi tanti altri che vengono fuori nel tempo.

     

    Intervistatore: Lo trovo molto interessante. Da designer di auto, non ho dubbi che tu sia in grado di individuare i modelli sportivi un po' superficiali, con pochi aspetti da scoprire e che fanno il minimo indispensabile. Però magari ci sono altre auto che si imparano a conoscere.

     

    Ken

     

    In un certo senso, ogni auto ha una sua storia, un po' come nei film.

     

    Quando guardi un film c'è la storia principale e poi altre secondarie. A mio avviso, lo stesso vale per il design. Ogni auto ha una storia e un messaggio da comunicare. Alcuni sono più nascosti, altri più immediati, ma tutti pensati per un tipo specifico di cliente.

     

    È improbabile che una famiglia, ad esempio, scelga un modello per la carrozzeria scintillante. Se invece hai una personalità spiccata e vuoi metterla in risalto, sceglierai qualcosa che comunichi di più: un'auto che esprima chi sei e cosa vuoi.

     

    Una vettura che non sia uno status symbol, diciamo, ma più una forma di espressione.

     

    Intervistatore: Da designer di auto, qual è la tua routine quotidiana? 

     

    Ken

     

    La mia routine, fammi pensare… allora, arrivo al lavoro e, per prima cosa, mi informo su cosa accade di nuovo nel mondo oppure discuto col mio vicino o i miei colleghi la direzione che abbiamo preso e come possiamo ripensare insieme la realtà intorno a noi.

     

    Poi passo al processo lavorativo, che è un po' più fisso. Pensiamo a un tipo di cliente, ci mettiamo nei suoi panni e ci interroghiamo su cosa stiamo realizzando. Risponde davvero ai desideri del cliente o rispecchia solo i nostri obiettivi?

     

    Quindi si tratta di informarsi sulle novità, entrare in contatto con gli altri, scambiarsi idee e ascoltare gli input di tutti per dare personalità a ciò che creiamo. È importante lavorare in squadra per avere l'opinione di tutti, altrimenti è come se fossimo bendati.

     

    Perché lo scambio reciproco di idee è un'attività così importante?

     

    Intervistatore: Perché vedere cosa succede nel mondo è un modo molto interessante di iniziare la giornata. I progetti su cui lavori sono pensati per il mondo e per le persone: hai un pubblico di riferimento, ma a volte potrebbe essere difficile mettersi nei suoi panni perché, sì, il pubblico è vasto ma le persone che ne fanno parte sono diverse tra loro, giusto?

     

    Quindi immagino che tu debba immedesimarsi in loro. 

     

    Ken

     

    Esatto, bisogna mettersi nei panni delle persone, quelle di oggi, ma anche di domani, che non è facile. Specialmente in Europa. Viviamo un periodo un po' caotico. Da designer, penso sempre che viviamo ancora in un sogno degli anni Ottanta, ma dobbiamo creare una nuova visione per il futuro.

     

    Una visione per cui è fondamentale scambiarsi le idee con più persone possibile. Possiamo proporre una visione diversa, una nuova direzione o evoluzione per qualcosa, ma questo scambio è estremamente importante, che lo si faccia con un approccio “qui e ora”, o con una visione di medio/lungo termine.

     

    Lo ritengo fondamentale. Seguire questa routine mi aiuta molto a unire gli spunti per creare quella visione nuova che tutti cerchiamo. Quindi la ricerca è una componente intrinseca del lavoro, quella individuale come quella fatta insieme ai colleghi.

     

    Credo sia uno degli aspetti più importanti per chi fa il designer.

     

    Intervistatore: Quali ritieni siano i punti più alti della tua carriera? 

     

    Ken

     

    Mi ritengo piuttosto fortunato, potrei scegliere fra tanti dei lavori presentati. Magari posso fare un elenco? Non so se risponde alla tua domanda, ma ho avuto l'occasione di lavorare su auto già orientate verso proposte eco-sostenibili, come la FT-CH. Ho anche lavorato alla prima generazione del modello C-HR, 

    partecipando all'evoluzione della produzione. Poi c'è la Eagle Cross e, più di recente, la nuova generazione C-HR. Davvero un grande traguardo. Credo anche che, insieme al lavoro in sé, per la progettazione siano altrettanto importanti l'atmosfera e il processo.

     

    Lavoro per Toyota da 15 anni e, grazie agli sforzi fatti per cambiare il modo in cui lavoriamo, ci scambiamo idee o concepiamo l'ambiente lavorativo, siamo riusciti a creare una nuova identità o un messaggio più forte, un prodotto più solido in termini di progettazione per Toyota. Il nostro centro creativo, come mi piace chiamarlo, si trova a Unity Square. Ogni tre mesi organizziamo conferenze nel nostro studio e invitiamo persone di tanti settori diversi.

     

    A volte parliamo di creatività, altre di ingegneria. E poi c'è la formazione. Teniamo sempre le porte aperte agli scambi con altri settori per cogliere idee, confrontarci con persone diverse, e valutare se quello che stiamo facendo e pensando sia valido. Credo si tratti di un gran cambiamento, un punto di forza di tutto ciò che il nostro studio è diventato.

     

    Intervistatore: Un'ottima risposta. In realtà hai già risposto ad alcune domande che ti avrei fatto. Puoi parlarmi un po' di più delle tue altre fonti di ispirazione?

     

    Ken

     

    In Toyota ho scoperto che è molto difficile far andare in porto una semplice idea; tuttavia, l'azienda apprezza davvero gli sforzi fatti per tenere l'idea in vita e insistere affinché venga realizzata, se fatti con gentilezza.

    All'azienda piace vederci convinti di qualcosa e sforzarci per trovare diversi modi di renderla reale. È così che capisce che l'idea è degna di nota.

     

    A mio avviso, si tratta di una filosofia aziendale positiva e interessante.

     

    Intervistatore: E rispecchia in qualche modo l'idea di "andare oltre", non è così? Perché bisogna insistere per far approvare un'idea e ci sono diversi modi per farlo, lasciandola a riposo per un po' e poi tornandoci sopra.

     

    Ken

     

    Credo che questo approccio ci aiuti ad andare oltre le idee. La prima idea di solito viene scartata, perciò andiamo oltre i suoi confini, finendo per realizzarla, la maggior parte delle volte, quando ne vale davvero la pena.

  • Intervistatore: Assolutamente. quindi bisogna credere nelle proprie idee?

     

    Ken

     

    Sì, anche se a volte bisogna lasciarle andare.

    Da direttore creativo, è una cosa che vedo spesso. C'è una grande idea, che può prendere vita in tanti modi diversi. Quindi ci si affeziona all'idea, ma non necessariamente alla sua esecuzione, che invece può prendere diverse forme.

     

    Intervistatore: Ora dimmi: nel corso della tua carriera, qual è la lezione più importante che hai imparato, finora?

     

    Ken

     

    Ho imparato che non esiste risposta sbagliata. Le idee vengono bocciate spesso, ma non perché non siano valide. Magari non corrispondono alle esigenze attuali o non arrivano al momento giusto. E a volte capita che vengano utilizzate per altri progetti. Mi piace l’idea che nessuna risposta sia errata, a volte è solo un'esecuzione sbagliata o magari di una componente mancante.

    E mi piace anche pensare che bisogna sempre spingere un'idea oltre i limiti per trarne il massimo. A volte sono le proporzioni, altre le rifiniture, altre ancora un’esecuzione. Magari bisogna essere più precisi, concentrarsi meglio sul prodotto per perfezionarlo. Oppure bisogna solo fissarsi su ogni aspetto di ciò che si fa e

    curare ogni minimo dettaglio, anche se alla fine nessuno se ne accorgerà. Credo che un ottimo prodotto si crei così. 

     

    Intervistatore: Assolutamente. Qual è la tua idea di successo nel campo in cui lavori?

     

    Ken

     

    C'è una risposta facile: quando il disegno di un progetto viene selezionato, insieme a tutti gli sforzi compiuti per realizzarlo. Viene approvato se ascolti gli altri e li coinvolgi nella realizzazione.

    Il successo non sta nell'approvazione in sé, ma nel fatto che tutto il team e le persone con cui lavori comprendano e concordino con te su ciò che pensi.

    Per me, è questo il successo più grande. Non si tratta di mettere un prodotto sul mercato, ma di coinvolgere tutti in una visione condivisa.

    Sta tutto nel lavoro di squadra, da solo non ce la farei.

    Io collaboro con il mio team, credo sia questo che ci consente di far bene il nostro lavoro.

     

    Intervistatore: Hai dei consigli per chi legge questa intervista su come dare il meglio di sé?

     

    Ken

     

    Il mio consiglio è: non mollare mai e non essere testardi. Sono due cose diverse.

     

    Intervistatore: Ed è qui che entra in gioco l'ascolto, giusto? Se continuiamo ad ascoltare gli altri e a integrare i loro pareri è più facile tenere viva l'idea che ci sembra migliore. Proprio così si ottiene ciò che conta e si va oltre, non mollando mai.

    Possiamo parlare dell'ispirazione attorno al veicolo e delle persone che ritieni importanti?

     

    Ken

     

    Posso citare la questione della fluidità di genere? La trovo pertinente. Ti racconto la storia del progetto e delle scelte di design. All'avvio del progetto non abbiamo iniziato da zero.

    Avevamo già lanciato un'auto di grande successo sul mercato, ovvero la prima generazione di Toyota C-HR. Quindi la prima sfida era come conservare le caratteristiche di quel prodotto fantastico e, al contempo, trasformarlo in uno tutto nuovo. Era davvero difficile. Dovevamo preservare parte della sua tradizione. E in più, il mondo cambia e con esso cambiano i desideri delle persone.

    Quindi volevamo fare qualcosa di più… non voglio usare “inclusivo” o “universale”, diciamo adatto a tutti, non polarizzante. Per il marketing abbiamo fatto un bel gioco di squadra, con un viaggio d'affari a Berlino e Stoccolma per studiare persone, generi e comunità differenti, nello specifico quella LGBTQI+.

    Abbiamo scoperto persone cui non importa ciò che pensa la gente di loro, creative, in questo senso simili a un designer.

    Persone a cui piace fare ciò che amano. E non importa se gli altri non ne sono contenti: farli felici non è il loro obiettivo. Cercano qualcosa con cui possano davvero esprimersi ed essere sé stessi.

    Ma sono anche molto gentili e per niente aggressivi nei loro modi di fare. Fa parte delle sfaccettature della loro personalità.
    È questo che contraddistingue la nuova auto: decisa e audace, ma anche molto morbida, fluida e gentile. È aggressiva e al tempo stesso delicata. 

    Credo sia questo il motivo per cui hanno scelto la nostra proposta. Ovviamente, ha una presenza molto forte. Ha tutto ciò che caratterizzava il modello precedente, ma con una filosofia diversa. Quando la vedi, percepisci l’aggressività urbana. Però ha anche un altro aspetto, pacato ed elegante, versatile per attraversare la città senza disturbare nessuno.

    È riconoscibile: la vedi e la percepisci subito. Credo si tratti di un duplice aspetto di questa auto, che a dirla tutta è stato piuttosto difficile da trovare. Questa è la storia di Toyota C-HR.  

    Ogni opinione è stata importante per questo progetto, lo scambio è stato fondamentale. E anche ogni personalità. Credo che ogni singolo membro del team sia stato cruciale per il progetto.

    Ognuno di loro ha fatto la differenza. È il prodotto di un lavoro di squadra. Ogni parere è stato fondamentale, e questo ci ha portati a sostenere proprio quelle idee che per Toyota, in quel momento, non erano accettabili.

     

    Intervistatore: Hai un motto che segui nella tua vita o che ti motiva?

     

    Ken

     

    A dire il vero, sì, ne ho uno. Se non ricordo male, un filosofo indiano ha detto in un documentario: "Il mondo è ciò che credi esso sia".

    Potrebbe essere facile a dirsi, ma penso che il mondo sia davvero come lo immaginiamo. Se riesci a pensarlo, poi diventa reale. Significa che puoi essere chiunque se lo vuoi, ma anche che il mondo è fatto da ciò che credi sia, non è statico.

    Lo trovo molto interessante. È un'idea che tengo sempre in mente. 

     

    Intervistatore: Qual è la prossima grande novità che ti aspetta? Cos'ha in serbo il futuro? 

     

    Ken

     

    Ferie. Sai, credo di averlo detto prima, per me la prossima grande sfida è realizzare un progetto che mi faccia sentire che sto lasciando qualcosa ai miei figli.

    Si parla tanto della scarsità di risorse, del riscaldamento globale e così via. Sono convinto che tutto questo sia un problema e, da designer, vorrei risolverlo. Per me, la soluzione sta nell'idea di ripensare come potrebbe essere il futuro.

    E, per essere accettata, deve essere una visione che unisce la gente. Ci sono già migliaia di prodotti in grado di salvare il pianeta e che nessuno vuole, quindi non funzionano. Dobbiamo inventarci qualcosa che la gente desideri di possedere, una nuova visione che può condividere. Ci lavoro tantissimo con i tirocinanti. Questa, per me, rappresenta la prossima novità.

    È un cambio di mentalità, no? Viviamo ancora in un mondo creato dalla visione che le persone avevano negli anni Ottanta o Novanta, non che questo sia un problema. Il mondo delle auto è un po' come quello di Star Wars. Ma ovviamente è cambiato, il futuro non sarà quello.

    Ci vorrà del tempo, ma dobbiamo provare a trovare una soluzione. E non basta dire che va trovata, dobbiamo impegnarci di più. E se non funziona, passare a qualcos'altro. Provare, e riprovare ancora, finché non troviamo la risposta giusta.

     

    Intervistatore: Quali passi contano di più nella tua vita da designer di auto? 

     

    Ken

     

    Per me, ogni cosa che imparo conta, ogni cosa che scopro. Mi piace conoscere cose nuove e, forse perché sto invecchiando un po', non credo che tutto vada realizzato in una volta sola.

    Direi quindi che ogni passo conta.

Kazuki Nakajima

  • Data di nascita
    11 gennaio 1985
  • Paese di origine
    Giappone
  • Professione
    Vicepresidente di Toyota Gazoo Racing Europe
  • Kazuki Nakajima va oltre ogni limite, credendo fermamente nel detto giapponese "naseba naru": volere è potere.

  • Intervistatore: Cosa ti ha spinto a voler diventare un pilota?

     

    Kazuki

     

    Mio padre è stato la scintilla del desiderio di diventare pilota: faceva gare automobilistiche. Durante la mia infanzia era ancora pilota professionista di Formula 1. Le corse erano lo sport che conoscevo meglio, anche se in realtà mi piacciono baseball, calcio e la maggior parte degli sport. Amavo l'aspetto competitivo. La prima gara a cui ho partecipato è stata proprio una corsa automobilistica.

     

    Ho iniziato la mia carriera a dieci anni con i go-kart. Sono passati quasi 30 anni, è stato un bel viaggio.

     

    Intervistatore: Cosa si prova a correre la 24 Ore di Le Mans?

     

    Kazuki

     

    Beh, non è facile da riassumere in una frase, ma diciamo che la 24 Ore di Le Mans è un po' come le Olimpiadi per gli altri sport, perché si tiene solo una volta all'anno.

     

    Di solito nelle corse ci si concentra sul Campionato, ma Le Mans è un evento speciale e dedichiamo tantissime energie a questa unica, singola corsa. Vincere il Campionato è importante, ma vincere Le Mans lo è altrettanto. Abbiamo l’abitudine di dire che appena finisce la gara di Le Mans iniziamo a preparare quella dell’anno successivo

     

    L'impegno che mettiamo in questa corsa è nettamente più profondo rispetto alle altre.

     

    Intervistatore: Potresti definirla un'occasione in cui vai oltre?

     

    Kazuki

     

    Sì, decisamente. È l'obiettivo più importante di tutta la mia carriera, senza ombra di dubbio.

     

    Intervistatore: Ok. Qual è la tua routine quotidiana da pilota?

     

    Kazuki

     

    Quando non siamo al volante ci occupiamo di ogni piccolo dettaglio e di cosa possiamo fare per la prossima gara. Ci riuniamo spesso con gli ingegneri per analizzare i dati che abbiamo raccolto. E ci alleniamo molto, sia a livello fisico, sia mentale. In due parole, ci prepariamo.

    È uno sforzo costante per migliorare le cose: capire fino in fondo l'auto, la guida, come andare più veloce. Cerchiamo di individuare ogni dettaglio che può migliorare la prestazione. È questa la routine di un pilota.

     

    Intervistatore: Quali ritieni siano i punti più alti della tua carriera finora?

     

    Kazuki

     

    Il punto più alto è sicuramente la prima vittoria alla 24 Ore di Le Mans, nel 2018.

     

    Il momento migliore della mia carriera, non c'è dubbio. Avevo raggiunto dei buoni risultati anche prima, come la vittoria ai Campionati di Super Formula in Giappone. Anche correre nella F1 è stato speciale, ma vincere Le Mans alla settima partecipazione è inarrivabile - e infatti è stato un lungo viaggio, con tanti momenti difficili. Quindi, sì, aver superato queste sfide e raggiungere un obiettivo così ambizioso è sicuramente il punto più alto della mia carriera.

     

    Intervistatore: Cosa ha contato di più per arrivare a questa vittoria? 

     

    Kazuki

     

    Direi che ogni esperienza ha contato, bella o brutta, compresi gli errori. Credo che ogni passo sia stato utile. Tutto sta nel trovare un margine di miglioramento. Quindi anche ogni sforzo conta. Poi direi che conta ogni momento, ogni passo. Parlavamo della 24 Ore di Le Mans. Lì ogni istante è fondamentale: se perdi anche un unico passaggio la gara è finita. E intendo anche durante la preparazione.

     

    Intervistatore: Quindi ogni secondo conta?

     

    Kazuki

     

    Direi che ogni decisione conta, forse perché nelle corse la capacità di giudizio è cruciale: devi saper valutare rischi e opportunità. Quindi, forse, ogni decisione compiuta in ogni momento conta.

     

    Intervistatore: Qual è stato il momento più difficile che hai vissuto?

     

    Kazuki

     

    Fammi pensare… credo di aver avuto tanti momenti duri nella mia carriera, ma probabilmente il più difficile, e il più noto, è stato durante Le Mans 2016. Eravamo in testa fino a cinque minuti prima del traguardo, con un vantaggio notevole. Eravamo pronti per la nostra prima vittoria, quando all'improvviso abbiamo perso per un guasto meccanico.

    È stato un momento tragico, il più duro di tutti. Ma come dicevo tutto sta nell'imparare dalle esperienze. In questo senso quindi direi che è stato un punto di svolta per la squadra, per preparare la nostra prima vittoria, due anni dopo.

     

    Intervistatore: Come hai superato quel momento? Come si continua ad allenarsi e non rinunciare ai propri obiettivi?

     

    Kazuki

     

    La prima cosa è non gettare la spugna. Bisogna ricordarselo sempre, per superare le difficoltà. È importante imparare dalle esperienze, ma anche cercare il lato positivo delle situazioni difficili. Nel 2016 abbiamo perso, ma se consideri la progressione della gara, nel complesso, stavamo andando alla grande.

     

    Noi non abbiamo commesso errori, tutto filava liscio come l'olio. Ci sono mancate solo un po' di fortuna e la capacità dell'auto di poter completare la corsa. Tutta la squadra ha imparato qualcosa di utile da questa gara, che ci ha fatto partecipare all’edizione successiva più sicuri di noi stessi.

     

    Questa sicurezza ci ha aiutato a restare motivati, senza perdere il ritmo, fino alla sfida successiva. È stato un episodio che ci ha insegnato moltissimo, a tutti. Per fortuna abbiamo avuto l'occasione di proseguire con il nostro programma, grazie a Toyota.

     

    Intervistatore: Credi che Toyota sia diversa dalle altre aziende automobilistiche? In che modo si distingue? 

     

    Ken

     

    [Riflette, ndr] Credo che il suo punto di forza sia l’ascolto attivo e attento - dei clienti, ma anche delle persone che lavorano in azienda, che sono clienti a loro volta. Lo trovo un aspetto piuttosto interessante.

    Penso che la maggior parte delle aziende non ascolti i propri collaboratori tanto quanto i clienti.

  • Intervistatore: Un'osservazione interessante. C'è stato un momento difficile nella tua carriera, ad esempio durante la progettazione di un'auto?

     

    Ken

     

    Riprendo quello che ho detto prima. A volte nessuno capisce come raccontare la stessa storia in maniera diversa, presentarla diversamente oppure, banalmente, adattarla.

    Forse, "andare oltre" significa proprio questo: non lasciar cadere un'idea, provare a convincere gli altri a seguire il nostro ragionamento. Non significa essere testardi, né tanto meno non ascoltare. A volte provi a fare qualcosa, e su due piedi non vieni capito. A dire la verità, mi è successo spesso: presentavo progetti, venivano rifiutati, e allora li proponevo di nuovo, ma in modo diverso.

    All'improvviso venivano capiti e, quindi, apprezzati. Trovo sia questo l'aspetto interessante: l'approccio per raccontare la stessa storia in maniera diversa. 

    Devo ringraziare tutti coloro che hanno sostenuto il nostro programma. Non possiamo dimenticare che senza supporto non saremmo nulla. Finché ci saranno opportunità da cogliere, avremo la possibilità di riuscire in quello che facciamo. E visto che le sfide non sono tutto dobbiamo prepararci, fare ogni sforzo possibile per migliorare.

     

    Intervistatore: Qual è la tua idea di successo? 

     

    Kazuki

     

    Ovviamente, per quanto riguarda la mia carriera automobilistica, vincere Le Mans o i campionati è il modo più facile per descrivere l'idea di successo.

    Ma ora che ho un ruolo un po’ diverso forse è leggermente cambiata. Credo abbia preso un significato più ampio. Il successo non consiste solo nella vittoria, ma anche nel coltivare talenti, provare ad allargare la fan base delle corse. Consiste nel trovare un modo perché queste gare possano dare un contributo più grande, nello schema generale; non solo regalando le emozioni dello sport, ma anche contribuendo allo sviluppo di auto o nuove tecnologie, grazie a tutti quegli aspetti diversi dalla prestazione di cui ci occupiamo.

    Penso che questo sport possa fare davvero tanto per il progresso e portarla in questa direzione è uno degli obiettivi per dire di aver avuto successo. Non è facile, ma non vedo l'ora di riuscirci. 

     

    Intervistatore:

    Ok, grazie. Hai dei consigli per chi legge questa intervista su come dare il meglio di sé? E cosa significa per te "andare oltre"?

     

    Kazuki

     

    Per me andare oltre vuol dire imparare dalle esperienze, ogni singolo passo conta. La motivazione che ci fa andare avanti, a cui non possiamo rinunciare in nessun caso. Imparare sempre, anche dagli sbagli, significa esplorare nuovi territori, che è l’essenza dell’andare oltre. Se non lo facciamo, rischiamo di rimanere bloccati nello stesso punto.

     

    Intervistatore: Grazie. Ora vorrei chiederti, hai un motto nella tua vita? E ti aiuta a sentirti vivo e motivato? 

     

    Kazuki

     

    Sì, è un breve detto giapponese: "naseba naru". Ho pensato molto a come tradurlo in maniera puntuale, e grosso modo potrebbe essere: se provi a fare qualcosa, otterrai sempre dei risultati. Volere è potere. Ma se non provi, non otterrai nulla. Il giapponese è una lingua molto compatta. Tengo sempre a mente questa frase, anche se mi porta a fare degli sbagli.

    L’ importante è imparare dai propri errori. Se non ci riesci, la tua carriera non durerà. È fondamentale per i piloti, ma è anche una lezione che tutti possiamo mettere in pratica, ogni giorno. 

     

    Intervistatore: Ottimo. Qual è la prossima novità che ti aspetta?

     

    Kazuki

     

    Credo di averla già accennata. Dato il mio passaggio da semplice pilota a un ruolo più ampio nella gestione della scuderia, uno dei miei obiettivi rimane senza dubbio vincere le gare e il Campionato. Un altro è coltivare i talenti, attrarre più piloti esordienti, e farli entrare in Toyota. Dare un valore aggiunto alle corse in senso lato,

    oltre l’adrenalina che questo sport regala ai tifosi; credo che ci siano tante cose da promuovere e sviluppare grazie alle nuove tecnologie. E dato che azzerare le emissioni è un argomento caldo in questo periodo, e non solo per il settore automobilistico, credo che il nostro sport possa contribuire al futuro del pianeta grazie allo sviluppo di tecnologie all'avanguardia.

    È un discorso su cui avrei molto altro da dire. È un obiettivo molto importante e forse lontano, ma è comunque una sfida che voglio affrontare. 

     

    Intervistatore: L'intervista è quasi finita. Ho un'ultima domanda; quali sono i tre passi più importanti nel tuo percorso per "andare oltre"?

     

    Kazuki

     

    Direi che ogni tentativo conta, ogni errore conta. Ma anche ogni sforzo per arrivarci.

    Tutti siamo consapevoli che ognuno di noi sta dando il massimo nel suo lavoro all'interno del team. Per andare oltre serve avere alle spalle una squadra. Non dipende tutto dal pilota. I piloti sanno che ingegneri, meccanici, persino gli autisti dei camion, ogni singolo membro del team dà il massimo. È la miglior energia che possiamo sfruttare per evolvere come squadra. È la somma di tutto questo che consente di andare oltre.